Storia delle OCT

Breve storia della Borgata Aurora
(a cura di Guido Giorza)

La borgata Aurora è costituita da due nuclei separati: uno, tra Corso Vercelli e via Cigna, con una storia legata alle industrie, e l’altro, lungo la Dora e sino alla via Bologna, tipico esempio di agglomerato operaio otto-novecentesco.
Dell’antica cascina che dà nome al quartiere, che sorgeva all’angolo tra gli attuali Corso Giulio
Cesare (un tempo Strada Nuova d’Italia) e Corso Emilia, non rimane nulla, così come nulla resta dei campi coltivati a cereali, dei prati e delle cascine isolate presenti sino alla seconda metà dell’Ottocento.
I terreni ad est della Strada Reale d’Italia, l’attuale Corso Vercelli, tra la Dora e la Cinta
Daziaria del 1853, risultano utilizzati ai fini agricoli sino alla fine dell’800, nonostante
l’insediamento in zona di alcune piccole realtà produttive, soprattutto nel campo della chimica, del tessile e della meccanica, poi diventate grosse realtà.
Prima del tracciamento, nel 1830, della Strada Nuova d’Italia, l’attuale Corso Giulio Cesare, e della costruzione del Ponte Mosca, questo territorio era attraversato, oltre che dal grande asse di collegamento extraurbano della Strada Reale d’Italia, da altre due strade, una diretta verso l’Abbadia di San Giacomo di Stura (attuali vie Chivasso ed Aosta), l’altra verso la Venaria Reale e le Valli di Lanzo (le attuali vie Antonio Cecchi, Giachino e Stradella).

La tortuosa Strada dell’Abbadia aveva inizio sulla sponda sinistra della Dora in prossimità dell’attuale Piazza Borgo Dora, in corrispondenza, inizialmente, di una guado lungo il torrente (sino al Medioevo), poi di un ponte di barche (nel ‘500) ed infine da un ponte prima di legno e poi in muratura, passava accanto alla Cascina Aurora e, dopo avere sfiorato la periferica borgata delle Maddalene, raggiungeva il greto della Stura di Lanzo, laddove oggi termina la Strada dell’Arrivore, dove c’era un traghetto gestito dai Monaci Vallombrosiani di San Giacomo di Stura.
La Strada della Venaria, invece, si dirigeva verso nord-ovest con andamento rettilineo a partire
dalle sponde della Dora e giungeva sino alla dimora Reale, per poi procedere verso le Valli di Lanzo, costeggiata nel suo primo tratto da una piccola borgata, il ‘Pavön’, individuabile nell’attuale isolato racchiuso da Corso Giulio Cesare, Corso Emilia, Corso Vercelli e il Lungo Dora Napoli.

La Strada della Venaria era un ampio viale alberato percorso da eleganti carrozze dirette al Castello ma anche da semplici carri trainati da buoi o da cavalli che portavano in città i prodotti della campagna.
Nel 1812, però, qualcosa cambia i destini di questa zona della città.
In vicinanza dell’antico Convento delle Maddalene, all’epoca ormai abbandonato e rimpiazzato da una cascina chiamata ‘La Bisognosa’, lungo l’attuale via Aosta, si insedia una grande Fabbrica Chimica per la produzione di acido solforico e concimi, di proprietà del Conte Vittorio Felice Sclopis.
Parecchi anni dopo, lo scavo del Canale Ceronda a nord della Dora, decretato nel 1864 come misura di ripiego per incrementare lo sviluppo industriale della Città, privata del ruolo di Capitale a vantaggio prima di Firenze e poi di Roma, favorirà l’insediamento di altri grandi stabilimenti industriali, tra cui la Ansaldi, per la produzione di macchine tipografiche, macchine agricole e materiale d’artiglieria, entrata in produzione nel 1899 e divenuta poi F.I.A.T. Grandi Motori per la produzione dei motori delle navi 15 anni più tardi, ed altre industrie del settore meccanico, tessile e conciario.
Un paesaggio fatto di ciminiere, case da reddito, casette e cascinotti descritto da Edmondo De Amicis nel suo celebre testo intitolato ‘La carrozza di tutti’, dato alle stampe nel 1896:
“(«…») Entravamo allora in quel largo corso Vercelli, ai due lati del quale si aprono strade e vicoli
che si perdono nei campi e s’alzano camini di officine da ogni parte, in mezzo a case disuguali e sparse, che paion d’un villaggio, ma che serbano ancora nell’architettura, nei colori nelle botteghe, in qualche cosa che sfugge alla parola l’aspetto assestato e rigido dei quartieri centrali di Torino («…»).”
Negli anni ’20 del Novecento il territorio dell’Oltre-Dora, in piena attività, non sarà certo il luogo più ameno e salubre della città, almeno a giudicare da quanto ci racconta nel 1926 Pietro Abate Daga nel suo saggio ‘Alle Porte di Torino’:
“(«…») Già allo sguardo dell’osservatore si prospettano il grande edificio della Manifattura Gilardini (sul Lungodora, stabilimento in cui inizialmente si producono ombrelli) e le alte ciminiere degli stabilimenti industriali, ergentesi nere e fumanti come altrettante bandiere del lavoro. Ma l’occhio volge istintivamente verso il letto della Dora, convinto che esso dovrebbe offrire un ammirevole quadro della Natura.

Quale disillusione!
L’alveo, le sponde, l’acqua stessa non potrebbero mostrarsi in condizioni più miserevoli:
neppure l’ombra di una decorosa sistemazione («…»), non acqua chiara e limpida, ma un
liquame, rifiuto dei canali industriali («…»).”
Un tributo che l’ambiente della Torino industriale ha dovuto pagare per molti decenni, in nome
del progresso e della produzione («…»).

Nei decenni successivi, però, le condizioni ambientali gradualmente miglioreranno e la Borgata
Aurora, che confermerà il suo ruolo di quartiere industriale sino agli anni ’50 del Novecento, si trasformerà definitivamente in uno dei più popolosi quartieri della città, con notevoli ed eleganti esempi di architettura liberty sparsi lungo le sue strade.
Oggi il quartiere Aurora, con le sue vecchie case a ringhiera, i suoi edifici moderni, le sue lunghe strade rettilinee, si è trasformato in un quartiere multietnico, luogo di confronto e di integrazione, di speranza e di innovazione. Se ci si sofferma un po’ ad assaporarne l’atmosfera restano, qua e là, alcuni segni della sua antica storia.


Una storia semplice… ma vera.